Lentamente…

Così sverna il tuo sole, sulla vetrina dei navigli, avvolta nella calda coperta di un sorriso che brucia.
D’inverno è sempre un po’ più dolce quel mi manchi.
Sonnecchia molle dentro pieghe di tessuto a quadri, naviga pozze solitarie e dolci di zenzero e anice stellato oppure allegro ciondola, di scintilla ardente nel crepitare acceso del camino.
Poco discosta l’uso del meriggio, di anno in anno replica la scena di me che guardo oltre un vetro su immaginari giardini inglesi coperti dalla neve.
Un viale intonso, breve e sulla porta ghirlande di vischio e nastri rossi.
Al davanzale brilla la luce calda di piccole candele, altezze diverse come i suoni su uno spartito e intorno agli occhi la pesantezza ad ogni tempo, traccia ogni volta un piccolo solco naturale che, manco a dirlo, si riempie del sottile rigagnolo che porta il tuo nome.
Ho bisogno dei miei piccoli riti in questo giorno, di assentarmi un attimo da tutto il resto , di rientrare a casa mia e da sola respirarne ogni voce.
Sembra quasi restituirmi piccole eco passate, dialoghi e propositi , frasi mai dimenticate come i tuoi occhi che mentono ogni volta, più veri forse dentro al pianto.
Ed è come se tutto questo fosse immobile galleria di ritratti e paesaggi o conservato come fogli d’appunti tra le pagine, in un disordine bizzarro di libri uno sull’altro, accanto al mio divano.

Come l’imbrunire identico di tanti anni fa, come ogni sera l’ultimo dell’anno ascolto ancora la stessa musica e ti parlo mentre là fuori il mondo mette l’abito da sera.

All’amore della mia vita.
Probabilmente non passerai di qui, e se mai fosse siediti accanto a me in silenzio… il tè è ancora caldo.


Orient Express

Non basta assentarmi per qualche interminabile tempo dentro un passo veloce verso casa. Non bastano gli scaffali, le discese, i luoghi di noi.

Non bastano e non basta vederti nell’unico momento in cui chiudo gli occhi e il mondo scompare; anelare la comodità delle ciglia che come palme d’agosto regalano la sordità di un riflesso di mare sereno e scintillante. Desiderare una modalità che arresta il tempo lungo la scala mobile, quasi lo scorrere divenisse ciclico per darmi il tempo della resa, una condanna che dal fondo dell’anima piano risale col respiro e svanisce prima di avere senso e forma, prima di ergersi a giudice del temperamento in quel piano estatico in grado di decidere che il chiavistello è tolto e capire, sorpresi all’infinito e alla misura colma, al tacere e al rivelare , che siete ancora cuciti in doppio.

Tu ed il tuo per sempre, pronti ad un nuovo trapassato, lesto a confondere le acque.
Balbetti il fuoco di quel pomeriggio lungo il crinale del muro, nell’artefatto comico dell’indifferenza, e speri, che nuovamente sia quella stanza al secondo piano, il metallico suono che anni dopo avrei abbellito d’oro, tutto quel modo d’amore che s’era spiegato come seta sul piano, il ricucirsi di pane, discorsi, vestiti sopra le molle….qualsiasi cosa possa arrestare l’usura, placare l’arsura di una moda inventata dai dettami della sopravvivenza.
Aspettare che passi ancora quello delle 18 ed un minuto unicamente per incollarsi ai vetri impreziositi dalla brina del mattino e seguire il paesaggio diventare indistinta tavolozza di pensieri in fuga.

Dreams

Come quelle parole
rimaste in gola per sbaglio
qualche lettera inciampata tra i denti e lì rimasta
io t’apro casa in sogno
quel lento avvicendarsi di luna, spalancata sulla notte
e un cielo vivido, di seta, la risacca placida di uno stuolo d’universi distanti.
Vieni a trovarmi ovunque, senza ombra d’edera sui muri, immateriali come d’eterea organza.
La tua perdita è mancanza che travalica il rosseggiare timido d’autunno, spazia inquietudini boschive, raccoglie spasmi e mi precede e abita dentro un cuore misto ad uvaspina.
E tutto quel tremare mi riguarda, riportandomi addosso il tuo ricordo schivo, la timidezza fragile delle tue mani bianche.

Ti chiedo di tornare ogni notte, come tesoro sepolto che riaffiora dentro caverne magiche e abbaglianti; così tu appari ed ogni volta è un’altra te che ascolto percorrermi le vene, ingigantire il suono della vergine montagna quando cupa ritrova le sue alture e la vertigine del suolo.
Dispersi , rimaniamo così lussureggianti di silenzio nell’oltraggio di un’eclissi che adombra l’amore.
Eppure manteniamo l’incognita degli sguardi, un vicendevole non detto che sappiamo.
La scelta di un dibattito escluso dal vizio di parola che nutre l’alternarsi della ragione e del sentimento.

Mi penso insostituibile , citazione autorevole scolpita al tuo pensiero
io contorta d’ulivo e versi
eppure so di me e di te, nella distanza estrema che ci salva
lontani cento strade ed ottantuno passi mentre impassibili aspettiamo l’ennesima sera che ci ubriaca e ci lusinga offrendo a entrambe il calice di un incantesimo.


La tua assenza

Invano questo giorno ti dimentica  
anche se tu 
dietro le quinte viola d’orizzonte, adesso  
non ci sei. 

Vorrei sperare  
in quella notte che precede l’alba 
quella in cui mi accadi ed io ci sono 
quella in cui ti arrivo 
e tu ci sei .

Non è che l’inseguirsi identico 
di un pensiero distante 
l’ora che qui ti aspetto 
e stavolta senza parole 
senza voce 
è questo spazio e questo tempo. 
 

Nell’assenza  
prende forma di te 
quest’aria che respiro 
una mancanza
che non riesco a misurare dagli occhi  
o con le mani. 
So che la nebbia danza le immagini 
quel volteggiare in doppio 
scuciti dalle stelle che ci affamano 
e ci colmano a vicenda. 

 
Perché qui noi ci amiamo 
nell’alba pallida di un sogno imperfetto 
tra onde e demoni che sovrastano 
le acque immobili fino allora. 

La mia anima risuona ancora, 
risuona del tuo vento; 
si lascia frastornare, 
 nella lentezza del crepuscolo, 
dall’immateriale certezza di noi due. 
Tutto mi guarda coi tuoi occhi; 
cullami….come nei nostri sogni,  
in un abbraccio. 
 

Non è che un granello di clessidra, questo tempo lento. 

(dedicata)
 

Un po’ di più



Una periferia adagiata questa nostra consapevole notte , tutto quel giallo stemperato alle pozze d’acqua scura , luci e ombre sdraiate sull’ora tarda e nuda. 
Di te la tempra di metallo, granitica indole che squama il rigore e lo lucida di neve.  
Di me la sete che spinge in bocca le parole  come rosso alla goccia. 
Non voglio saperti  oltre l’effimera barriera dell’ideale , voglio tenerti così: sospeso al giudizio delle parole
Aspettarti come s’aspetta il blu oltremare quando plana dai nostri discorsi.
Il respiro è una barca tirata in secca a fatica, lo spasmo dei modi gentili frenati in una vertigine di parole che misurano le virgole.
Tu lo sai che ci aspettiamo oltre, oltre la fiocina del buon senso quando ci arpiona il senso del protrarsi in mille convenevoli d’azzurro. E sai del tepore che sprigioniamo quando ci copriamo gli occhi a vicenda, quando le mani si vestono di gentilezze d’altri tempi, quando dimentichiamo che s’è fatta l’una del mattino e la notte imbroglia il vagabondare degli ubriachi e si spoglia lentamente di ogni luce, come un’amante nuova e famelica.
Intorno niente. Niente intorno. Il pontile verso ieri è deserto e s’interrompe al settimo asse con un sollievo di vento, tanto che a voltarsi indietro è solo nebbia , densa come una nuvola impenetrabile.
E tu rimani lì davanti, dove tutto brucia dalla parte del cuore, senza l’eccellenza romantica spalancata sulla bocca di domani.
Io mi rammendo qualche piccolo solco visibile, rassetto le rughe dell’anima e rendo presentabili tutti i miei anni sotto il tocco della tua lingua perfetta e amabile , su dalle scapole, lungo il collo delle mie paure fino a quell’attimo di gioia che ci preme contro il diaframma l’assoluta mancanza di respiro.
E’ un’ansia docile che lotta con la frenesia dirompente dell’incognita del tuo volto che piomba giù dalla tramontana di novembre, tuffato in una strada di mare, dentro l’arsura del sale, vestito del velluto notturno di un cielo d’agosto.
Mi respiri in una goccia di rosso, una boccata ebbra che si spinge in fondo alla gola con l’apice di ogni sillaba; parli in un sintomo di silenzio che scrolla di dosso persino i muri e sfumi la vela delle musiche che si gonfiano sotto l’egida di un Ostro magnifico quando si leva e quando tace.
Rimani fermo quando l’aria impazzisce di me, il tuo cuore si sfianca nell’esitazione di un pensiero. Vive nell’istante confuso che alterna gioia e stupore; la partitura sorprendente di un abbraccio e un trionfo di te sul passato che rovina a valle.



Diari d’Inverno_1_

Nelle danze rarefatte della non neve d’oltralpe, quella che spinge ricordi d’altri oltre i vetri appannati dai vapori tenui della miscela di te’ che inonda i pomeriggi con quel suo ambrato accenno alle carezze, ho necessità di dirmi quattro cose. Così… giusto perchè ho fermato il libro ad una pagina, le dita ancora in grembo alle parole, la mano a lisciare la copertina azzurra ed il suo titolo, spento la storia in pausa per poco, il tempo di rivederti un attimo e poi basta.
Chissà perchè Gennaio mi imbarca in un’ellissi di biancore, un’estenuante giostra di ricordi boschivi che mi sommerge dal solstizio ogni sacrosanta volta. Casa diventa d’ottocento, i tetti altissimi e anneriti dalle braci consumate e le pareti vestono damaschi stinti e un noce profumato. Ti guardo intorno, nel cuoio e nella pelle, nel tremulo affondare della cera ai piedi di candele tozze e tonde, sei qui accanto con la pretesa di esigere ogni dazio, ogni interesse per quella vita in prestito, pacata, dai tramestii suburbani e dalla quiete inglese.
Il tuo viso è il richiamo perfetto dell’ovale giallo della lampada, la pergamena non adombra mai quel tuo sorriso che sempre m’affatica.
Come d’amarti in un qualsiasi tempo, in ogni stagione. Sempre.
Tu mi fai il fiato corto; esasperato, il tuo silenzio leviga ogni pensiero che ruvido spicca il volo dai rami ossuti e perigliosi ; poi ti fai vitreo cameo, nella preziosità da me voluta, di un semplice innesto di sale e di lacrime. O forse di mare – preferisco dire di te in ogni dove, poesia.
Amalgama i toni del pomeriggio la velatura rossa di una nube appena, l’intrepido volteggio delle ombre che s’allungano, la casa che si specchia al verde col suo contorno di torce aranciate e su tutto la nebbia avvolgente di un poderoso blu, il preludio all’intimo discorso tra me e te. Mai finito.
Ci vorrebbe forse un cortile , le ginocchia sbucciate e gli occhi lustri di pioggia; ci vorrebbe la certezza e l’incredulità di poter salire sulla criniera verdeoro di un drago buono a spingersi indietro oltre il tempo di Saturno ed i suoi anelli, cancellare con un piccolo segno delle dita sulla sabbia il finale dei capitoli e ricominciare a scrivere, fiduciosi.
Tornare. Al nucleo sferico e vergine del primo sguardo.
Proseguire. Da adesso.




Diari d’Inverno _8_

Nevica. Una distesa d’inverno.
Dietro i vetri si dipana il mio ottocento romantico, come una sottoveste ampia; ogni qualvolta segna il calendario dicembre, tutto diventa oro, come il sogno di Anastasia.
Identità velate o solo insana follia?
Sembro il blu elettrico che frana dai dirupi, uno sfacelo di ghiaccio infilzato agli aghi di pino; eppure mi è dolce tutto questo freddo, il riparo davanti al camino è la mia nuda scrittura che ora si tinge dei tenui bagliori di brace, del guizzo esitante dei fuochi, e un istante dopo danza soltanto in un ricordo tenace e distante.
I versi cadono centellinati da un bicchiere tra le dita, trattenuti a lungo per non fasciare ferite che brillano come diademi orgogliosi: il mio tesoro dei Romanov è tutto in questo rosso che tinge la neve.
Vivo immersa nel senso bucolico della campagna in inverno; i larici, alteri guardiani del mio silenzio innevato, vestono il verde umido del bosco, mi ricordano che esisto…esisto e r_esisto oltre il mio amore.
Contemplo la sua voce che mi parla nelle sue mille forme, quel vento tagliente e capace di tutta l’arte incoerente che sovrasta il pensiero; un pensiero che resta piantato ai miei occhi come una scure efficace, di roccia, che non chiede nulla; è la certezza della sua consistenza che non trova riparo in alcuna scatola da chiudere, l’incombenza dei suoi respiri lungo la schiena che invecchiano dentro la mia poltrona inglese, nei quadri di un plaid o alla terza pagina del libro che sto leggendo.
Scopro che sei tutte le cose che ho sottolineato, la rotondità dei ginocchi un po’ arrossati per il freddo, la grazia delle mani che accolgono tazze fumanti alle cinque del pomeriggio e due biscotti a forma di stella.
Ho istruito la mia bocca al silenzio della rinuncia.
Fino a stanotte. Al blu della tua camicia , alla severità dei tuoi occhi.
Ti ho abbracciata. Sei vera – ti ho detto – e piangevo. Piangevo in silenzio.
E’ stato in quell’attimo che ogni stanza è caduta, ogni velatura scomposta, ogni ombra, ogni passato.
E’ rimasta la voglia di sorridere ai fianchi rotondi , alla morbidezza delle tue braccia e un certo sgomento per l’energia che stende le cose al sole, come un bucato vivo e ondeggiante di paura.
Sei ancora tutti i libri dei tuoi scaffali, la storia di Boccamurata, le amanti e le regine, la ferita dei non amati, il tuo Freud e il mio D’Annunzio, i mille splendidi soli che brillano ancora a casa tua, dove li ho lasciati.
Sei ancora la somma di tutte le donne che amano troppo, di quelle che corrono con i lupi, di quelle che fuggono e di quelle che restano.
Sei ogni parola scritta sul corpo, le foreste d’oriente e i c’era una volta per prendere sonno.
Sei capace di contenermi a mani chiuse. Ancora adesso.

Per darmi voce basterà la tua voce.
Basterà la tua bocca per risalire ai colori d’estate, per percorrere lo stelo delle rose senza graffiarsi e restare impigliati nelle spine. Basterai .
Basterai a camminare a quattro mani nella musica delle nuvole ogni volta che ritorno al ventre magico della pazienza e l’importanza di Te schiude le mani all’impossibile.


Diari d’Inverno _1_

E’ tardi, nonostante siano appena le sei. E’ poco più che un borgo questa strada che condensa tempi astrali, luoghi, lungimiranze, atenei di speranze. Alzo gli occhi, non vedo più la sagoma familiare rimasta al freddo per lunghi desolati inverni.
Per strada è una calma attonita, un via vai tutto sommato rado, mentre divido in due ieri e oggi e taccio la nostalgia di ogni parola.
Mi rispondo che in fondo in quella casa anche noi siamo state felici.
Non è mai accaduto quel piccolo divano, il caldo delle notti estive, le risate piano per non svegliare gli altri.
Lo ripeto alla ragione, nella livida sua alba. Non è mai stato .
E’ rimasta laggiù tutta la nostra vita, nelle storie di tutti i nostri giorni
la giostra di devozioni e liti acuminate
in fumo tra le braci di qualche stagione che tremava viva in fondo agli occhi.
E’ rimasto tutto questo Noi, tenacemente incatenato alla carezza che scende insieme al sonno sulle guance della notte, disperso nell’abitudine al mattino, ormai senza voce, consumato fino all’ultima vibrante nota.
Tu così ricolma di discorsi, sei sbiadita dentro a un sovrapporsi eterno di silenzio, innestata nei cardini del cuore, dove la sillaba sonora è diventata il mantice che genera il tuo pensiero forte.
Al bivio incontro i nostri ulivi segreti e contorti nel secolare, ruvido abbraccio alla terra, riconosco la loro poesia nelle zolle arse e anche adesso, nel gelido riposo d’inverno, quando specchiano le fronde dei loro versi alla tua fronte ampia di luna.

Quo vadis?

Esattamente allora come oggi. Le infinite lancette della ricerca, della pietà che disegna il silenzio. L’insospettabile luogo dell’apparenza, la dimenticanza dell’appartenenza.
Abbiamo svuotato l’ampolla , ora giace fragile su una coperta sempre più sottile, in bilico fra paure e non detti e il mare astioso dell’arroganza che rimescola avaro i sortilegi del nulla.
Questi giorni sembrano rincorrersi mantenendosi a distanza, la ciclica riproduzione inconsapevole del vestiario consueto, quello con cui si spera di non incontrarsi mai per caso.
Iniziammo da un inverno che sapevi solo tu; io , sfuggendo alle logiche, nemmeno pensavo potesse esistere la neve di gennaio; poi vennero i nostri giorni, invischiati come generosa bava di poca insistenza.
Da allora ogni -sei- riveste il suono di una tagliola, sibila come freccia scagliata contro il bersaglio della gola, o come sciabola inclemente che squarcia in due il velo dei cirri.
Tu non -sei-da quel tempo.
Tramontata come eclissi di tutte le stelle
dissolta nel tempo indeciso che ancora mi chiede di Te.
Tu non -sei- ogni tanto
ma sempre.
Lasci traccia ogni volta, un ago rovente che graffia e che brucia ogni singolo lemma .
Io ti ingoio da dovunque, da dentro la bocca, dagli occhi, dal cuore.
E so quanto male farai.
Quando senza volerlo ti incrocio e fai finta di essere un vuoto qualsiasi .
Dove vai? Vorrei dirti. Dove vai senza me, dove vai?
Io ti rammento il dolore che non vuoi, l’innesto dell’edera e dei gelsomini, la chiave di volta delle cose che hanno perso colore.
Eppure tutto hai perduto, tutto hai lasciato andare.
Contro le fughe indifferenti opponevo la mistura densa della disperazione, che fermentava addosso, rossa come vino; coglieva la memoria, il lucido sovrapporsi di fotogrammi anziani: restavano sospesi , s’agitavano forse, ondeggiando come autunnali foglie.
In ogni dove avrei voluto fermarti. In ogni quando, in ogni sempre. Pure.
Avrei voluto dirti – come oggi – se Sei Tu…non andare via stavolta.
Fermati, raccontami di te fino a commuovermi.